Lettera inviata al monsiniore Javier Echevarría

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Per Leonisa, 26.09.2011


Reverendo monsignor Echeverria,

mi chiamo [...] e ho trascorso molti anni della mia vita, dal giugno del 1970 al 1994, come Numeraria Ausiliare nell’Opus Dei.

Ho chiesto l’Ammissione all’Opera molto giovane, avevo 17 anni, aderendo alla proposta di rispondere a una vocazione a seguire Gesù nella mia vita di ogni giorno, nel mio lavoro quotidiano, senza lasciare le circostanze della mia vita ordinaria.

Solo a poco a poco, e sempre presentandomi ogni cosa come volontà di Dio nei miei confronti, sono stata informata delle modalità concrete in cui avrei dovuto vivere la mia vocazione. Tali esigenze venivano date per scontate, come conseguenza logica di un “sì” pronunciato in maniera totalmente inconsapevole delle conseguenze pratiche e concrete che avrebbe avuto nella mia vita...

Non mi è stato mai lasciato nessuno spazio per una valutazione prudente e responsabile, in prima persona, della coincidenza fra le mie personali aspirazioni e le modalità concrete di vita nell’Opus Dei. I miei 17 anni, e la completa ignoranza, normale in una adolescente per di più originaria di un piccolo paese di provincia, di ciò che è normale e prudente nella vita di un adulto e di ciò che non lo è, mi impedivano di valutare la “normalità” di quelle esigenze che mi venivano presentate, dettagliate e imposte.

Soprattutto, e lo sottolineo come un fatto particolarmente grave, non mi è mai stato parlato, né esplicitamente né implicitamente, di discernimento vocazionale, anzi sono sempre stata spinta, fin dal primo momento, a non mettere in nessun modo in discussione la vocazione che mi era stato detto che avevo.

Venne dato per scontato, soprattutto -ed io arrivai a comprenderlo solo molto più tardi, quando mi trovavo già imprigionata nel meccanismo- che il lavoro quotidiano oggetto della mia santificazione, si sarebbe svolto esclusivamente in Centri dell’Opus Dei e alle dipendenze di Società –srl o spa, a seconda dei casi- che, agli occhi della società civile esterna, gestivano giuridicamente i diversi centri dell’Opera in cui ho lavorato, come sappiamo essere prassi abituale. Mi sembra importante sottolineare che mentre all’inizio, quando si propone la vocazione, si sottolinea la chiamata a servire Dio nelle proprie diverse circostanze personali, in seguito, in maniera surrettizia e velata, si lascia passare a poco a poco e dandolo come cosa scontata, che tutta la propria vita professionale si svolgerà all’interno delle Amministrazioni dei centri dell’Opus Dei, con modalità che somigliano molto da vicino alla clausura religiosa.

In questo modo io mi sono trovata, essendo ascritta ad un centro e dipendendo asceticamente dalle Direttrici che formavano il Consiglio Locale di quel centro, a dipendere contrattualmente da varie di queste società, e concretamente:

- dal 1970 al 1°.VI.1988 presso la Fondazione Rui

- dal 2.VI.1988 al 31.XII.1990 presso il Cense

- dal 1°.I.1991 al 19.VI.1993 presso il Cedel, da cui sono stata illegittimamente licenziata, come ratificato dalla sentenza 122/05 del 25 marzo 2005 emessa dalla Corte di Appello di Roma.

Durante tutti gli anni in cui ho lavorato nell’Opus Dei come Numeraria Ausiliare non ho mai percepito la retribuzione: le buste paga ci venivano semplicemente consegnate senza il corrispettivo in denaro dal 1970 al 1990, e senza che ci venisse richiesta neppure la firma per ricevuta. Dal 1991 si iniziò a richiedere che apponessimo una firma per ricevuta.

Nel 1993, ritengo a causa dei problemi che iniziavano a sorgere per la prassi fin lì seguita, si passò alla seguente prassi: una delle Direttrici del Consiglio Locale del centro a cui appartenevamo (nel mio caso Laura Mola), assisteva alla consegna da parte della Cooperativa Cedel delle buste paga che contenevano in denaro contante la retribuzione di ognuna; in seguito, nella stessa giornata, un’altra direttrice del Consiglio Locale (Bea Lo Tito) ritirava l’intera somma, potendo in tal modo affermare che ognuna di noi aveva “volontariamente versato” la propria retribuzione. In tale situazione, in realtà, non esisteva il minimo margine di volontarietà reale, di libertà, da parte di noi Numerarie Ausiliari.

Attualmente mi risulta da fonte certa che, probabilmente a causa dell’insufficienza delle precauzioni prese per evitare contestazioni, si è passati ad una prassi ancora più fraudolenta: la busta paga consegnata contiene uno stipendio versato sotto forma di assegno. Tale assegno viene versato su un conto corrente cointestato a tre persone, una delle quali è la lavoratrice. Quest’ultima però, essendo privata dalla prassi vigente del diritto di avere per sé un libretto di assegni o una carta bancomat, non può di fatto disporre, da sola e senza l’avallo di almeno una delle due direttrici che hanno la firma congiunta, di quanto teoricamente le appartiene. In questo modo viene fatto salvo quanto previsto dalla lettera della legge, eludendo lo spirito.

Mi sembra anche importante sottolineare che le stesse Direttrici che presenziavano alla consegna delle buste paga da parte della Cooperativa Cedel e che poi ritiravano tali retribuzioni, erano le persone responsabili della nostra direzione spirituale personale e della direzione del centro in cui vivevamo, con una totale sovrapposizione di responsabilità spirituali, di governo organizzativo e giuridiche, situazione che già da sola è sufficiente a descrivere la totale mancanza di libertà nella quale vivevamo, oltre ad essere illegittima canonicamente.

Quello che avrebbe dovuto essere una libera adesione, la conseguenza di un impegno di vita assunto liberamente e vissuto con volontarietà attuale, diventava così di fatto un obbligo imposto dall’esterno e ineludibile, grazie ai meccanismi di sorveglianza poliziesca con i quali si realizzava.

Tutto quanto ho descritto finora, come Lei ben sa, è una prassi generalizzata per tutte le Numerarie Ausiliari, almeno nei periodi e nell’area geografica a cui mi riferisco.

Nel mio caso personale, poi, a tutto questo si aggiunse l’impossibilità di incontrare la mia famiglia durante 11 anni, a causa dell’opposizione da parte delle Direttrici, e il fatto di essere stata fatto oggetto, una volta arrivata all’età di 40 anni e ritrovandomi in una situazione di ridotte capacità lavorative a causa degli strapazzi e delle esigenze della vita lavorativa impostami nei centri dell’Opera, di licenziamento ingiustificato e unilaterale, e pertanto ingiusto come ratificato dalla sentenza a cui ho già fatto riferimento, e a una persecuzione violenta a fronte dei miei tentativi di resistenza a tale trattamento.

Tale licenziamento è stato contemporaneo alla mia estromissione violenta, contro la quale io mi sono a lungo battuta, dall’Opus Dei, fatto questo che conferma una volta di più la stretta sovrapposizione fra la vita professionale e la vita spirituale e vocazionale degli appartenenti alla Prelatura dell’Opus Dei, e dimostra che, dietro la facciata del rapporto di lavoro dipendente con la Fondazione Rui, o il Cense, o il Cedel, ecc., in realtà il datore di lavoro è la Prelatura, che in quanto tale è responsabile di tutti gli obblighi che nascono da tale rapporto lavorativo.

In seguito a tutto quanto descritto fin qua, Le chiedo, Reverendo Echevarria: che valore hanno le incorporazioni giuridiche che incardinano un fedele alla Prelatura Opus Dei? Perché io ho chiesto l’ammissione il 27.VI.1970, ho fatto l’Oblazione il 25.III.1972 e la Fedeltà, o Incardinamento definitivo, il 29.I.1978. Ad oggi, non mi risulta di essere stata dimessa.

Le mie personali vicende spirituali –vocazionali- e lavorative si sono accavallate e confuse, come è normale in un regime così poco chiaro come quello vigente nell’Opus Dei, e senza alcun consenso o condivisione da parte mia mi sono trovata a essere fatta oggetto di un licenziamento iniquo e, per ciò stesso, a ritrovarmi fuori dall’Opus Dei.

Desidero ricevere da Lei chiarimenti riguardo alla mia situazione e spiegazioni della condotta che è stata tenuta verso di me da Dirigenti qualificati dell’istituzione di cui Lei è responsabile. Voglio credere che la responsabilità pastorale che è parte integrante della Sua missione Le farà trovare la forma per dare riscontro alla mia richiesta, che nasce nella mia anima scandalizzata e ferita per i trattamenti ricevuti da persone dalle quali avrei dovuto aspettarmi solo del bene.

Invio questa mia richiesta con ricevuta di ritorno: se non riceverò una risposta soddisfacente, secondo verità e giustizia, entro 15 giorni dalla data di ricezione, sarò costretta a presentare in altri luoghi questa mia richiesta.

Dio mi è testimone che quanto ho descritto in queste pagine risponde esattamente a verità, e voglio sperare che la sua coscienza lo riconosca e non voglia disattendere la mia richiesta di giustizia e chiarificazione.